Maria Cristina Valsecchi | Pubblicato il 24/12/2024
Costituita formalmente il 20 settembre scorso dall’Istituto Superiore di Sanità, la Rete Italiana delle Città per l’Equità della Salute sta pianificando tra i suoi primi interventi un’azione pilota nel Municipio III di Roma, con l’obiettivo a lungo termine di identificare e contrastare le diseguaglianze sociali che determinano la salute della popolazione.
Patologie croniche come tumori, diabete e malattie cardiovascolari sono in gran parte conseguenza di condotte non salutari: il fumo, lo stile di vita sedentario, l’alimentazione scorretta. Le campagne per la prevenzione di solito mirano a sensibilizzare i singoli o gruppi target specifici nei confronti di questi fattori di rischio. Ci sono però condizioni più a monte che modulano l’esposizione ai fattori di rischio al di là del comportamento individuale e che ricadono invece sotto la responsabilità del contesto socio-economico.
Le città di Marmot
Da decenni ormai il filone di ricerca avviato dall’epidemiologo britannico Michael Marmot ha evidenziato la correlazione tra lo stato di salute e benessere e determinanti sociali, come il grado di istruzione, il reddito, le condizioni abitative. Conoscere le cosiddette “cause delle cause” che determinano le diseguaglianze di salute è dunque necessario per poter prendere delle decisioni ragionate e sviluppare azioni mirate di contrasto.
È un approccio sostenibile e fattibile a livello locale. Nel Regno Unito oltre il 70% delle autorità cittadine sta lavorando con l’intento di sostenere questi principi, al fine di migliorare la salute e ridurre le disuguaglianze sociali di salute. “L’azione locale è cruciale in quanto risponde alle condizioni in cui le persone sono nate e in cui crescono, vivono, lavorano ed invecchiano, appunto i determinanti sociali della salute”, spiega Raffaella Bucciardini, direttrice dell’Unità di Disuguaglianze di Salute dell’Istituto Superiore di Sanità.
Alla rete delle “città di Marmot” si ispira l’iniziativa da poco avviata anche nel nostro Paese. “Al momento, il progetto italiano sta raccogliendo le adesioni di diverse Parti Interessate ad incidere sui determinanti sociali di salute”, spiega Bucciardini, che coordina la Rete. “Bisognerà mappare i problemi di salute e i determinanti sociali specifici di ogni territorio per poi avviare un processo di trasformazione che potrà portare le amministrazioni locali a implementare qualunque iniziativa nell’ottica dell’equità sociale. Per esempio, se un Comune decide di attivare un nuovo servizio sanitario sul territorio, avrà la necessità di identificare potenziali popolazioni vulnerabili rispetto al problema del trasporto, come le persone con disabilità fisiche, quelle con redditi bassi, o quelle che sono geograficamente più isolate”.
Gli esempi di Bologna e Trieste
Alcune città italiane hanno già intrapreso iniziative in questa direzione. Ricercatori dell’Università di Bologna, per esempio, hanno mappato le aree della città dove è maggiore la prevalenza di diabete, malattie cardiovascolari e patologie psichiatriche. È emerso che coincidono con le aree dove i residenti hanno in media grado di istruzione e reddito più bassi, dove maggiore è la presenza di residenze di edilizia popolare. Sono aree mal collegate al resto della città con i mezzi di trasporto pubblici, dove scarseggiano i negozi di alimenti freschi e prevale la grande distribuzione di alimenti processati low cost, dove gli unici centri di aggregazione sociale sono i locali che vendono alcolici.
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“Questo genere di dati è la base da cui partire per elaborare strategie basate sull’evidenza scientifica”, osserva Bucciardini. “Ai dati bisogna poi tornare per valutare a posteriori i risultati degli interventi”.
Un altro esempio virtuoso è quello di Trieste, che da anni ha attivato il progetto Habitat Microaree: presidi sociali a disposizione dei residenti delle zone più vulnerabili della città, che offrono informazioni e servizi, come l’accompagnamento delle persone anziane, la consegna a domicilio della spesa e dei farmaci, il doposcuola per i bambini, il prestito di libri, e organizzano pranzi sociali, animazione e attività culturali.
Il Municipio III di Roma
Al modello di Trieste si ispira il portierato sociale, iniziativa avviata l’anno scorso nel Municipio III di Roma, ed in particolare nel quartiere Tufello, che è storicamente una zona svantaggiata dal punto di vista socioeconomico, con una grande concentrazione di alloggi di edilizia popolare.
Il portierato è uno sportello di informazione e consulenza a disposizione dei residenti per il disbrigo di pratiche burocratiche e l’accesso alle risorse dei servizi sociosanitari, che garantisce anche un servizio di accompagnamento e trasporto presso le sedi degli uffici e dei luoghi di cura, oltre a interventi di assistenza domiciliare leggera e organizzazione di laboratori e eventi ludico-ricreativi.
“L’Istituto Superiore di Sanità, nell’ambito del progetto Rete Italiana delle Città per l’Equità della Salute, sta collaborando con l’Assessorato alle Politiche Sociali del Municipio III e con il Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale della Regione Lazio per analizzare i dati relativi alle condizioni di salute dei residenti della zona, i determinanti sociali a cui sono correlati e programmare iniziative utili”, spiega Bucciardini. “Potremmo partire proprio dal portierato sociale, promuovendo un ampliamento dei servizi che offre. L’obiettivo è quello di rafforzare la coesione sociale, l’empowerment personale e collettivo e il rafforzamento del ruolo e dell’impatto della prevenzione. Nel lungo termine miriamo a ridurre la prevalenza delle malattie. Nel medio termine, un parametro utile per valutare l’efficacia degli interventi potrebbe essere il numero degli accessi al pronto soccorso”.
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Citazione: Maria Cristina Valsecchi. Al via la Rete Italiana delle Città per l’Equità della Salute – Univadis – 24/12/2024.
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