Massimo Sandal, PhD   |   Pubblicato il 26/12/2024

Poche cose gettano un’ombra sulla scienza medica come il concetto di razza. Lo stesso termine, sebbene utilizzato nelle pubblicazioni scientifiche in lingua inglese, stride alle orecchie di molti scienziati e medici europei. Il Vecchio continente, infatti, dopo la Seconda giuerra mondiale ha inserito il ripudio del concetto (e persino del termine) di razza in molte Costituzioni (inclusa quella Italiana), obbligando medici e scienziati a trovare costrutti linguistici alternativi, il più comune dei quali è l’utilizzo del termine etnia per tradurre il “race” spesso presente nei paper scientifici.

La medicina ha fornito supporto per il razzismo “scientifico” del XIX e XX secolo, fin da quando il medico Johann Friedrich Blumenbach pose le basi delle prime classificazioni razziali alla fine del XVIII secolo. La medicina è stata ripetutamente uno strumento di oppressione razziale: dalle surreali diagnosi di “drapetomania” per gli schiavi che volevano fuggire, alle sperimentazioni umane del nazismo, al famigerato esperimento di Tuskegee negli Stati Uniti o al Progetto Coast del Sud Africa dell’apartheid.

Questa relazione pericolosa non è finita. In società multirazziali come gli Stati Uniti, è evidente che esistono disparità negli esiti medici tra persone di diversa origine etnica: si registrano, infatti, differenze nei rischi di malattia, nei tassi di mortalità e persino nel modo in cui la medicina tratta i pazienti in base alla loro “razza”. Ma nella medicina persiste anche un pensiero razziale, se non razzista. Un esempio è il pregiudizio, ancora diffuso, secondo cui le persone nere sentirebbero meno dolore rispetto alle persone bianche, con conseguenze in termini di trattamento.

Negli Stati Uniti, il Paese occidentale dove in generale la riflessione su razza e razzismo è più vibrante, il rapporto tra razza e medicina è tornato al centro dell’attenzione dopo le proteste del 2020 seguite all’omicidio di George Floyd da parte della polizia. Questi eventi hanno spinto la comunità medica americana a riflettere sul legame tra razza e salute. L’equilibrio è sottile: si tratta di liberare la medicina dai residui razzisti che ancora persistono, ma anche di riconoscere se e quali effettive differenze bisogna considerare per diagnosi e terapie ottimali.

Per quanto riguarda l’Europa, il dibattito sembra essere praticamente assente. Ci sono pochissimi dati e pochissimi studi sul tema, anche se diverse evidenze qualitative mostrano che sarebbe opportuno interrogarsi sul tema. Quanto segue si riferisce quasi esclusivamente al dibattito americano, dunque, anche se molti concetti sono applicabili universalmente.

Tante facce, una razza

Sappiamo ormai che la razza non è un concetto biologico. È un dato ampiamente documentato che si riassume in: le popolazioni umane attuali non sono suddivise in rami distinti di un albero filogenetico. Tutta l’umanità è inserita in un continuum genetico multidimensionale, che non può essere suddiviso in modo netto senza ricorrere a confini estremamente arbitrari. Oltre l’80% della variabilità genetica umana si trova all’interno delle popolazioni invece che come differenza tra popolazioni con origini geografiche diverse. Somiglianze apparenti, come la pelle scura o chiara, sono in realtà adattamenti evolutivi alla latitudine, non una prova di vicinanza genetica. E infatti il colore della pelle è un tratto controllato da geni diversi. La “distanza genetica” esiste anche quando due persone condividono un’origine geografica su larga scala: basti pensare alla straordinaria diversità genetica presente in Africa, superiore a quella che esiste tra tutte le altre aree geografiche, tanto che si potrebbe affermare che le popolazioni non africane siano essenzialmente variazioni sul tema di quelle africane.

Dal punto di vista scientifico, però, resta comunque un 10% circa di variazioni genetiche più o meno fortemente correlate alla provenienza geografica che, come si vedrà, sono oggetto cruciale di discussione.

Razza come costrutto sociale

La razza però è del tutto reale come costruzione sociale. Dire che qualcosa è una costruzione sociale non significa sminuirne la concretezza o gli effetti: il denaro è un costrutto sociale, ma i suoi effetti sono, com’è ovvio, estremamente tangibili. Dal punto di vista medico, le esperienze legate alla razza, come le discriminazioni, il diverso status sociale ed economico, i fattori di stress accumulati durante l’infanzia, le abitudini culturali e persino il trattamento ricevuto nel sistema sanitario creano molte occasioni di disparità che sommate insieme possono influenzare significativamente la salute delle persone.

Le influenze negative del concetto di razza afferiscono a due categorie: razzismo strutturale, ovvero l’insieme di disparità sociali presenti nella struttura della società, e bias implicito, ovvero l’attitudine più o meno conscia dei singoli nei confronti di persone percepite come di razze diverse. Nel 2002, un rapporto dell’Istituto di Medicina degli Stati Uniti ha documentato oltre ogni ragionevole dubbio le disuguaglianze sistemiche e le barriere strutturali che contribuiscono alle disparità razziali nel sistema sanitario statunitense. In Europa le cose non sono molto diverse, nonostante la scarsità di dati renda difficile ottenere un quadro preciso.

Medicina di razza?

Nonostante la sua validità in ambito biomedico sia discussa ormai da molti anni, nella pratica medica la razza è ancora considerata un parametro su cui basare decisioni diagnostiche o terapeutiche, non molto diversamente dall’indice di massa corporea o l’età. Un database nel 2023, messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pittsburgh, negli Stati Uniti, ha raccolto “39 calcolatori di rischio basati sulla razza, 6 risultati di test di laboratorio con intervalli di riferimento basati sulla razza, una raccomandazione terapeutica basata sulla razza e 15 farmaci con raccomandazioni basate sulla razza”.

A parte casi come la presentazione delle malattie dermatologiche, uno dei motivi per mantenere la razza come parametro è la possibile correlazione dell’origine etnica con varianti genetiche di interesse medico. Un esempio riguarda le persone asiatiche, il 75% dei quali non possiede una variante funzionale del citocromo CYP2C19, necessaria per metabolizzare il clopidogrel, un farmaco usato per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. In oncologia, studi di associazione genomica hanno identificato varianti sul cromosoma 8 associate a un maggiore rischio di tumore alla prostata, che risultano più comuni nelle popolazioni nere rispetto a quelle bianche – un fatto che potrebbe spiegare almeno in parte l’incidenza del 78% superiore tra le persone nere. Viceversa, alcuni geni come PTEN si ritrovano mutati più raramente nei tumori delle persone nere. Le persone originarie dell’estremo Oriente hanno una maggiore probabilità di venire diagnosticate con tumori dei polmoni con mutazioni del gene EGFR. Oltre all’incidenza, dunque, anche la biologia tumorale sembra differente tra le diverse etnie.

Sulla base di questo tipo di dati, diversi medici e ricercatori hanno proposto di utilizzare comunque il concetto di razza come un’approssimazione – grossolana ma meglio di nulla – per tenere conto della diversità genetica, in attesa di comprendere meglio i reali determinanti sociali, biologici e genetici. Nel 2021 Akinyemi Oni-Orisan e altri medici afroamericani hanno argomentato sul New England Journal of Medicine a favore di questa idea. Mettere in gioco la razza sarebbe dunque un esempio di diversità di trattamento positiva, portando miglioramenti concreti nella salute delle popolazioni non bianche. Scienze sociali e genetica dovrebbero dunque collaborare per sviluppare curricula che siano al tempo stesso “antirazzisti e non antigenetisti […] La ricerca genetica, se condotta in modo responsabile, è di per sé antirazzista”, concludono Oni-Orisan e colleghi.

Un esempio chiave citato dagli autori dell’articolo è l’approvazione dell’idralazina e isosorbide dinitrato (Bidil) come terapia per l’insufficienza cardiaca. Questa combinazione si è dimostrata efficace nel trattamento dell’insufficienza cardiaca per i pazienti afroamericani e non per i bianchi. Senza la stratificazione razziale degli studi clinici, affermano Oni-Orisan e colleghi, non sarebbe stato possibile evidenziare la sua efficacia per questa popolazione, confermata poi in studi successivi. L’approvazione di questa terapia nel 2005 scatenò già all’epoca un dibattito tra chi riteneva errato attribuire a un quid intrinsecamente razziale i risultati degli studi clinici e la Food and Drug Administration che invece riteneva impossibile ignorare i dati sulle popolazioni in cui il farmaco è efficace.

La storia di questo farmaco potrebbe però essere meno limpida di quanto sembri a prima vista. Già nel 2004 Maxwell Gregg Bloche, docente di diritto e politica della medicina alla Georgetown University (Washington, USA) ricostruiva come il percorso di approvazione del Bidil come primo farmaco specifico per una categoria razziale avesse l’obiettivo di allungare la durata del brevetto – fino al 2020 – di una combinazione di farmaci che altrimenti sarebbe stata accessibile come generico dal 2007. Bloche spiega che “la facilità con cui la razza può essere utilizzata come un marcatore grezzo per una differenza biologica clinicamente rilevante la rende attraente come base per immettere sul mercato prodotti farmaceutici. Ma una volta che un’azienda farmaceutica ha ottenuto la protezione del brevetto e l’approvazione normativa, ha pochi incentivi a sponsorizzare la ricerca volta a chiarire le variazioni genetiche rilevanti e le loro manifestazioni fisiologiche.”

Inoltre, prosegue Bloche, le differenze razziali nel rischio e nella risposta cardiovascolare non sono necessariamente genetiche: “Affrontare le difficoltà in modo attivo o passivo, o la sicurezza di sé nel gestire le sfide della vita influenzano sia le risposte cardio che emodinamiche. Nella misura in cui effetti di questo tipo non sono distribuiti casualmente tra gruppi razziali, essi svolgono un ruolo nelle risposte al trattamento. Abbiamo appena iniziato a chiarire questi meccanismi. Concentrarsi sulla razza come un sostituto genetico rischia di scoraggiarci dal farlo”.

Dalla medicina race based alla medicina race conscious

Viceversa, un numero crescente di specialisti e società di medicina desiderano eliminare ogni riferimento alla razza nel momento in cui si decidono diagnosi e trattamenti. Tenere traccia della razza, dunque, solo come costrutto sociale legato a discriminazioni sistemiche, non come categoria biologica: un approccio definito race conscious, “consapevole della razza”, in contrasto con una medicina descritta come race based, “basata sulla razza”.

Una delle principali sostenitrici di questa posizione è Jessica Cerdeña, medica e antropologa all’Università del Connecticut. Come spiega a Univadis Italia: “L’idea di una medicina consapevole della razza riconosce che non c’è modo di evitare le categorie razziali. Sono parte integrante di gran parte del modo in cui è organizzata la società. Ma è il razzismo il fattore determinante ed è necessario intervenire su questo. Quindi piuttosto che accettare la razza come una conseguenza naturale delle nostre strutture sociali e che determinerà per sempre i risultati sanitari, sta dicendo che possiamo intervenire attraverso l’istruzione, attraverso la politica, attraverso interventi clinici per essere in grado di combattere l’influsso del razzismo sull’assistenza sanitaria”.

Secondo Cerdeña, la strada da seguire non è una medicina basata sulla razza, ma una medicina consapevole della razza, secondo cui la razza non è un fattore di rischio in sé, ma un indicatore di rischio. “Se tratti la razza come un fattore di rischio, stai fondamentalmente dicendo che a causa della tua razza sei destinato ad avere risultati peggiori. Quando studiavo medicina, mostravano grafici per dire che se sei nero, indigeno, latino, fondamentalmente muori prima, muori più velocemente, muori per più cose. E sì, quei dati sono veri di per sé, ma sono solo un indicatore di un processo sottostante tramite il quale il razzismo influenza la salute. La razza, dunque, è un indicatore della tua probabilità di poter ottenere un’assicurazione sanitaria privata. È un indicatore della qualità del tuo quartiere. È un indicatore del tuo stato economico e della convenienza del cibo nel tuo quartiere. Se invece diciamo che la razza è di per sé un fattore di rischio, allora rischiamo di pensare che non ci sia nulla da fare.”

Altri autori inoltre argomentano che le associazioni tra razza e malattia spesso si propagano come “meme” nella letteratura medica senza essere veramente corroborate dai fatti. Andrea Deyrup e Joseph L. Graves nel 2022 hanno notato che la maggiore incidenza dei cheloidi nelle persone di discendenza africana, citato regolarmente nei libri di testo, risale a un convegno del 1931, e che nello stesso convegno venivano riportate incidenze analoghe per gli adulti svizzeri. Delle correlazioni tra razza e malattia descritte in un comune libro di testo medico del 2011, 17 su 31 non erano corroborate dalla letteratura scientifica e 3 erano anzi direttamente contraddette.

A volte, dati che apparentemente corroborano una differenza biologica possono scomparire o essere messi in dubbio da un’analisi più approfondita. Un esempio molto lampante è la relazione tra uso di tabacco e mortalità per tumore ai polmoni. Uno studio del 2006 ha riscontrato che tra le persone asiatiche che abitano negli Stati Uniti ci sono più fumatori (29,3%) che tra le persone nere (20,2%) – ma la mortalità per tumore ai polmoni è molto più elevata in questi ultimi (58,8 su 100.000 rispetto a 40,1 su 100.000). Cedere alla tentazione di ritenere questa una discrepanza dovuta a un diverso sfondo genetico è facile, ma gli autori dello studio stesso fanno notare che, almeno in parte, potrebbe derivare invece da differenze culturali. Per esempio: “È stato osservato che i neri inalano più nicotina per sigaretta fumata rispetto ai bianchi e, forse, subiscono una maggiore esposizione ai cancerogeni del tabacco. Il che può spiegare in parte i loro alti tassi di cancro ai polmoni, nonostante un basso numero di sigarette fumate al giorno.”

L’approccio race conscious sta prendendo piede a livello ufficiale. Per esempio, nel 2022 l’American Academy of Pediatrics ha rilasciato un policy statement molto netto contro la medicina basata sulla razza. Una decisione che ha avuto effetti concreti, come l’abolizione delle linee guida sulle infezioni delle vie urinarie nei bambini di età compresa tra 2 e 24 mesi che raccomandavano cure diverse per i bambini bianchi rispetto a quelli non bianchi. Queste linee guida si basavano su un algoritmo clinico che attribuiva un rischio teorico più basso di infezione ai bambini di colore, basandosi su ipotesi relative ad antigeni del gruppo sanguigno. Tuttavia, tali antigeni non erano stati scientificamente validati, né gli antigeni erano in realtà significamente correlati alle categorie razziali. Nelle parole del policy statement “la razza era stata inserita in modo inappropriato come proxy biologico predefinito al posto di un’osservazione epidemiologica spiegata in modo incompleto.” C’è uno sforzo in corso per costruire algoritmi alternativi che non includano la razza tra i parametri, come per la funzionalità renale, per il rischio di malattie cardiovascolari o per il parto vaginale dopo parto cesareo.

Costrutti sociali con conseguenze reali

Resta il fatto che, anche negli studi clinici in cui si controllano i fattori socioeconomici, ambientali e altri rischi conosciuti, persistono differenze tra persone che si identificano in categorie razziali o etnie differenti. A questo proposito, alcuni hanno argomentato che la razza possa condensare in sé fattori non genetici, come quelli legati al contesto socioeconomico o alle esperienze di discriminazione, che hanno a loro volta effetti biologici e medici attraverso meccanismi non necessariamente ancora chiariti, e quindi difficili da considerare separatamente, come per esempio effetti epigenetici.

Eliminare semplicemente l’uso del concetto di razza nella ricerca biomedica e nella pratica clinica sarebbe dunque rischioso: la razza può catturare informazioni epidemiologiche importanti, come i determinanti sociali della salute derivanti dal razzismo, dalla discriminazione e dall’esposizione a fattori ambientali. Come scrivono John P. Ioannidis e colleghi su JAMA nel 2021: “È emerso un lungo elenco di variabili che cercano di catturare aspetti socioeconomici, accesso alle cure, assicurazione sanitaria, discriminazione, privazione, geografia e luogo, identità percepita, opportunità, interazioni sociali, mobilità finanziaria, comportamenti sanitari e altro ancora. Sebbene molte di queste variabili probabilmente si avvicinino di più alle relazioni causali rispetto alla razza, anche loro sono ancora in gran parte non standardizzate, sono spesso misurate in modo grossolano e sfortunatamente non spiegano completamente le differenze in base alla razza “. Per alcune applicazioni, continuano gli esperti, la razza potrebbe continuare a essere la variabile migliore per catturare l’influenza sulla salute; ignorarla o normalizzare i parametri col gruppo di maggioranza potrebbe peggiorare i risultati, specialmente per le popolazioni più svantaggiate. “Per altre situazioni, si potrebbe invece realizzare che queste variabili razziali sono diventate obsolete” continua l’articolo, lasciando aperto il dibattito sulle scelte da fare caso per caso.

Interpellata da Univadis Italia, Cerdeña non è d’accordo: “L’esperienza delle persone sul razzismo varia ampiamente in una stessa etnia. Pensiamo agli asiatico-americani. Cii sono così tanti fenotipi diversi, esperienze di migrazione, esperienze economiche che sono rappresentate dalla “razza asiatica”. Una persona asiatica può essere arrivata con un visto scolastico da Taiwan, i suoi figli possono aver frequentato scuole private, avere accesso a ottimi lavori – mentre qualcun altro può essere arrivato come migrante filippino o laotiano senza documenti. Differenze nell’istruzione, differenze nel background economico, differenze nelle opportunità di vita. Sono tutte però raggruppate insieme in un’unica grande categoria, quella ‘asiatica'”.

Dalla razza all’ascendenza

Come detto, alcuni dati genetici variano effettivamente tra le popolazioni, il che ha portato a discutere il concetto di “ascendenza genetica”. L’ascendenza, a differenza della razza, è definita come la correlazione tra genealogia genetica e origine geografica. “Il test di ascendenza genetica comporta il confronto di un gran numero di varianti del DNA misurate in un individuo con le frequenze di queste varianti in popolazioni di riferimento campionate in tutto il mondo. La regione geografica in cui una variante individuale ha la sua frequenza più alta si presume sia la posizione più probabile di un antenato che ha trasmesso la variante alla persona sottoposta al test” spiega Cerdeña.

Sappiamo che, almeno per malattie monogeniche, l’origine etnica può essere correlata a fattori genetici di rischio – pensiamo alla malattia di Tay-Sachs frequente negli ebrei ashkenaziti, o alla talassemia nelle popolazioni mediterranee. L’uso dell’ascendenza potrebbe quindi tenere conto correttamente della componente genetica, permettendo di eliminare il fattore razza, anche in condizioni complesse: un esempio è la predizione della funzionalità polmonare, che migliora tenendo conto dell’ascendenza genetica invece della razza.

Tutto risolto? Secondo diversi critici, l’ascendenza resta comunque in molti casi un proxy statistico impreciso e, se elimina il concetto di razza dalla porta principale, rischia di farlo rientrare dalla finestra. Lo spiega sempre Cerdeña a Univadis Italia: “Che certi geni giungano sistematicamente a frequenze alleliche più elevate accade in popolazioni molto piccole, isolate socialmente e riproduttivamente, il che nel contesto americano non è vero quasi da nessuna parte – tranne forse in un gruppo di ebrei ashkenaziti a Brooklyn, di creoli in Louisiana e in piccole sacche di franco-canadesi nel Maine. Per il resto c’è così tanta mescolanza genetica per cui un possibile effetto del fondatore nel contribuire al rischio genetico per certe malattie si disperde. Quindi, quando provi a dire che la percentuale di ascendenza africana determina il rischio di cancro alla prostata, stai dicendo che – prendendo il continente che contiene il più ampio grado di diversità genetica – hai determinato che una persona ha una certa percentuale di discendenza africana senza effettivamente guardare gli alleli determinanti, e ne deduci che ciò è in qualche modo associato a un rischio di sviluppare il cancro alla prostata. Dal punto di viosta lòogico ed eziologico, non ha senso.”

La categorizzazione dell’ascendenza si confronta inoltre inevitabilmente con la mescolanza avvenuta nel tempo. Negli Stati Uniti per esempio è possibile distinguere geneticamente l’ascendenza delle persone identificate come bianche e come nere, ma solo nel senso in cui le persone bianche hanno in media una percentuale molto piccola di ascendenza africana, mentre le persone nere hanno una percentuale di ascendenza africana estremamente variabile; in altre parole, sono un insieme del tutto eterogeneo.

Guido Barbujani, professore di genetica all’Università di Ferrara e ricercatore sulla genetica di popolazione umana, è scettico sul fatto che l’ascendenza di per sé possa essere un fattore predittivo fondamentale, come dichiara a Univadis Italia: “Non ho mai visto un esempio concreto di questa situazione. Quello che vorrei, e solo allora sarei disposto ad accettarlo, è che un medico mi dicesse: ‘ecco un caso in cui, appena il paziente ha dichiarato di essere di una certa origine, il medico ha escluso un’ipotesi e si è concentrato su quella che poi si è rivelata corretta’. Non escludo che possano esistere casi del genere, ma ho chiesto a molte persone e nessuno è mai riuscito a fornirmi un esempio concreto”.

È però possibile ritrovare una correlazione andando a vedere come e dove si sono evolute certe varianti genetiche, prosegue Barbujani: “Anna Di Rienzo, un’italiana che lavora a Chicago con un team molto competente, ha condotto uno studio sulle relazioni tra il clima e una serie di varianti legate all’obesità, ai geni delle malattie cardiovascolari e simili. Hanno scoperto che il clima ha un ruolo significativo, con correlazioni che spesso non si riescono a spiegare, ma che esistono. Per esempio, nei climi caldi è più comune un certo allele, mentre nei climi freddi ne prevale un altro. La seconda scoperta riguarda alcuni alleli per cui c’è evidenza di selezione positiva nel passato, ma che oggi predispongono a malattie. Probabilmente,nella preistoria, quando la vita media era di 40 anni, era vantaggioso avere resistenza al clima, per esempio riducendo la dispersione termica restringendo i vasi sanguigni. Tuttavia, con l’allungamento della vita e l’assenza di quegli stress termici, la predisposizione a restringere i vasi rimane e oggi porta a diverse malattie cardiovascolari”.

La medicina evoluzionistica, dunque, potrebbe essere una chiave per arrivare a integrare correttamente la diversità genetica umana nella pratica clinica.

Cosa si può fare?

Ci vorrà ancora un po’ prima che la medicina riesca a liberarsi dalla razza e, allo stesso tempo, tenga correttamente conto della diversità umana. ‘Razza’ è un concetto rovente, che scotta comunque lo si prenda in mano. E mentre si cerca di eliminarlo, rientra da percorsi inattesi, come le intelligenze artificiali che tendono a rigurgitare le distorsioni presenti nei dati con cui sono state addestrate, inclusi pregiudizi razziali più o meno espliciti.

È plausibile, però, che prima o poi la razza debba essere abbandonata definitivamente. Nel tentativo di prenderla in considerazione per maggiore accuratezza, la medicina basata sulla razza rischia in realtà di diventare una medicina di imprecisione, affidandosi a una catalogazione arbitraria e confusa per afferrare divergenze reali. Una soluzione potrebbe venire proprio dalla medicina di precisione, capace di analizzare sul singolo paziente i fattori genetici di rischio invece di affidarsi alla correlazione statistica.

Anche qui però c’è da lavorare: gran parte degli studi di associazione genomica su larga scala sono stati condotti prevalentemente su individui di origine europea, limitando la capacità di individuare i veri fattori di rischio genetici. Le associazioni derivate da questi studi tendono a essere meno predittive per le popolazioni di ascendenza non europea. È necessario dunque tenere conto della diversità genetica legata all’origine geografica. Allo stesso modo – compito ancora più complesso – serve un programma di ricerca sugli impatti diretti e indiretti delle differenze sociali, culturali, economiche, ambientali e storiche.

In ultimo, ma non per importanza, il tema della razza è intrinsecamente politico e ideologico. Proprio questo potrebbe essere un ostacolo, osserva Guido Barbujani: “Tra i medici, quando parlo di questo argomento, mi sembra che la differenza di atteggiamento non sia legata tanto alle loro specializzazioni o esperienze, quanto piuttosto alla loro ideologia. Questo non sorprende più di tanto, perché, in fondo, siamo tutti influenzati da pregiudizi personali. Tuttavia, è interessante notare quanto questa dinamica si manifesti in modo concreto. A mio avviso, questa divisione è particolarmente evidente in un momento storico in cui tutto, a livello globale, è fortemente polarizzato e le posizioni tendono a essere estremizzate. Di conseguenza, anche in ambito professionale, il peso dell’ideologia si fa sentire in modo significativo”.